Aggiornato il 27 maggio 2021.
Questo articolo è stato revisionato e aggiornato il 27 maggio 2021.
Sull’immigrazone e intelligenza rispettosa: idee, pensieri ed esperienze.
Nel primo di questa serie di tre articoli dedicati all’immigrazione e intelligenza rispettosa ho voluto condividere con i lettori di RhetoFan due importanti insegnamenti:
- il primo riguarda l’indiscussa forza delle parole: possiamo, con le parole, appunto, portare inverno, nuvole e nebbia nelle nostre vite. Ma possiamo anche portare estate, ciel sereno e orizzonti limpidi. A noi la scelta.
- il secondo insegnamento invece è relativo a quanto e come incassiamo i colpi bassi che la vita ci riserva: nessuna avversità sarà mai in grado di abbatterti se la tua fede profonda sarà in te stesso, nell’incrollabile speranza in un futuro migliore, nell’ardente desiderio di evolvere, nell’inscalfibile volontà di esplorare.
Con queste due idee cardine allo spirito, in questo articolo vorrei condividere con te alcuni pensieri ed esperienze personali in stretto rapporto con l’intelligenza rispettosa.
Se vuoi essere rispettato dagli altri, la cosa più grande è rispettare te stesso. Solo in quel modo, solo con il rispetto di te stesso tu obblighi gli altri a rispettarti.
Fëdor Dostoevskij
Uno dei valori su cui si fondano le relazioni interpersonali è il rispetto. Howard Gardner nel suo libro Cinque chiavi del futuro parla di intelligenza rispettosa.
Una scelta personale
Il livello di integrazione che vogliamo raggiungere quando decidiamo di vivere in un posto diverso dal Paese di nascita è una scelta personale: vogliamo curiosare in e contaminarci con la cultura di accoglienza oppure decidiamo di riproporre, lontani dalla nostra patria, le peculiarità della cultura di partenza.
Questa è una scelta, i cui effetti si possono notare a breve e lungo termine: sul modo di essere, comportarsi e relazionarsi. È, naturalmente, una scelta che influisce fortemente anche sul percorso di carriera che si vuole, se si vuole, intraprendere nella nuova cultura in cui siamo approdati per scelta, bisogno o curiosità.
Noi, esseri umani, abbiamo una radicata tendenza a costituirci in gruppi e per farne parte è necessario poter dimostrare di appartenervi.
Fare il badante
Nella primavera del 2003, ancora abitante irregolare nel profondo sud italiano e “volenteroso” lavoratore di mestieri che non avevo mai né fatto, né immaginato di fare, mi misi a cercare qualcosa che rilegasse il mio Io rumeno al mio nuovo Io italiano.
Erano i tempi in cui venivano regolarizzati gli extracomunitari impiegati nelle famiglie italiane per lavori di cura e assistenza domiciliare diurna e notturna. Era quello che facevo, oltre a lavorare, sempre clandestinamente, in una segheria per meno di tre euro all’ora.
All’epoca la comunità rumena in Italia aveva raggiunto e superato il milione di persone e la stragrande maggioranza faceva proprio questo tipo di lavori. Senza documenti, come me.
Assistevo, la notte, il padre anziano di una squisita famiglia di medici di Caltanissetta a cui arrivai per un inaspettato passaparola di amici degli amici degli amici della famiglia stessa.
Facevo il badante, proprio nel periodo in cui questa parola stava entrando nel lessico italiano come neologismo, anche se di fatto non fu un vero neologismo. Della parola badante, e di come, quando e perché entrò nella quotidianità lessicale italiana se ne occupa con massimo rigore documentaristico questo articolo dell’Accademia della Crusca.
La famiglia nissena mi accolse con rispetto e calore come se fossi uno di loro. Come un figlio, anche se di figli ne avevano due: Sofia e Giacomo, vispi, adorabili.
Nuova cultura, nuove parole
Io parlavo un modestissimo italiano che imparavo con molto zelo da autodidatta, e loro, tutti e quattro insieme, mi diedero una bella mano, oltre che alcuni libri, testi scolastici, che conservo ancora come caro ricordo di un tempo particolarmente intenso della mia vita: l’alba della rieducazione della mia educazione.
Il tempo in cui, dopo il terribile terremoto ad altissima intensità che causò il crollo delle strutture del mio Essere, iniziavo a ricostruire: nuova lingua e nuova cultura, nuovo pensiero e nuovo comportamento.
Loro – la famiglia – mi fecero scoprire tante belle cose della Sicilia e non solo in quell’anno e poco più in cui fui badante, ma anche figlio, nipote, cugino, uno di loro, insomma.
Per esempio, sono stati loro a farmi conoscere il significato della parola luculliano che usavo quando potevo con orgoglio e non nascosta pedanteria. E poi: l’uso del partitivo “ne” (Vuoi dell’acqua? Sì, ne voglio!), ma anche le indimenticabili melanzane al sugo, l’amaro siciliano Averna, nisseno autentico e che festa per il palato! Sono stati loro a farmi vedere e avere i primi assegni bancari e conoscere l’indimenticabile fragranza Missoni.
Il cocktail di emozioni
Durante quei mesi, vissi un cocktail di emozioni davvero particolare: ammirazione mescolata a un profondo dolore. Ammirazione per come la famiglia, tutta, accoglieva quella devastante tristezza dell’essere diventata … invisibile in pochi giorni. E dolore perché in quel drama c’ero anche io, vicino, troppo vicino.
Ancor’oggi mi vengono i brividi quando ricordo il volto addolorato dei figli, dei nipoti e dei parenti che dicevano: “Papà sono io, tuo figlio, mi riconosci?”, “Papà, siamo noi, siamo venuti a trovarti”. Le domande si sbriciolavano sotto il peso di un assordante silenzio. Il papà non rispondeva. Il suo sguardo rimaneva fisso, imprigionato in un punto lontano, nell’insondabile buio che solo lui poteva vedere …
Fu il mio primo incontro di straordinario sconvolgimento emotivo con quella insidiosa malattia provocata dal morbo di Alzheimer.
Il distinto signore, il papà di questa splendida famiglia siciliana che ho conosciuto per un sorprendente passaparola di amici degli amici degli amici della famiglia stessa, era praticamente scomparso in meno di due settimane dopo aver preso servizio. Di lui rimase solo il corpo, mentre sulla sua mente calò il sipario. Ancora giovane per gli standard siciliani, nella primissima giovinezza della sua terza età.
No, non era deceduto, era scomparso nel senso che fu risucchiato inesorabilmente dalle tenebre di una malattia che spegne, con ferocia crudeltà e in poco tempo, la luce della mente. Lasciando, di fatto, il corpo in balia del vuoto. Del nulla. Un corpo – ed è davvero terribile – senza spirito.
Un foglio A4 e una nuova vita
Fui regolarizzato nella primavera del 2003. Era un marzo mite di una primavera molto speciale: segnava il mio ritorno, con diritti e doveri, tra gli abitanti di un Paese. Ridiventavo, dopo 18 mesi e grazie a un foglio A4 su cui era stampato in maiuscolo “Permesso di soggiorno”, un cittadino con carta d’identità e patente di guida italiana. Per festeggiare l’evento, mi regalai un libro, anzi un dizionario bilingue, inglese-italiano.
Avevo avuto la parola della famiglia già da alcuni mesi prima della regolarizzazione effettiva. Iniziai a guardare al futuro con rinnovata speranza. Adorava la mia nuova famiglia nissena, avevo la mia vera famiglia in Sicilia, parenti e molti amici siciliani.
Ma il mio indomabile spirito, la mia anima vagabonda, la mie mente vulcanica avevano bisogno di nuove energie, di nuovi orizzonti. Per continuare a ricostruire i frantumi in cui mi fui sgretolato al mio arrivo nel Bel Paese.
Lo sapevo: non appena fossi entrato nel possesso dei documenti che regolarizzavano il mio status di immigrato clandestino, mi sarei messo di nuovo in viaggio. Mi chiedevo come farlo sapere alla mia nuova famiglia senza urtare i loro sentimenti.
Lottavo contro un paralizzante senso di colpa. Li avrei traditi, in un certo senso, ma loro erano capaci di comprendere, mi dicevo.
Così è stato. Se vuoi andare perché stai male qui, con noi, diccelo! Se, invece vuoi andare perché aspiri a riprendere gli studi, allora vacci e noi ti auguriamo un grosso in bocca al lupo! mi dissero. Che bella famiglia stavo lasciando … che nobiltà di animo in queste persone. Quando ne avrei incontrato altre, come loro!
In cerca di una nuova città
Dopo alcuni mesi in cui di notte facevo il badante e di giorno lavoravo come operaio, nei pochi ritagli di tempo che mi rimanevano andavo in un Internet Café di Canicattì. Uno spazio con una decina di computer gestito da una giovane famiglia del posto. Diventammo amici e a poco a poco anche loro mi fecero scoprire tante altre belle cose della Sicilia e non solo.
A loro lego, perché me l’hanno fatta ascoltare per la prima volta, L’emozione non ha voce di Adriano Celentano. La colonna sonora della nostra storia d’amore, mi dissero, mentre mi mostravano emozionati le foto del loro matrimonio.
Un tardo pomeriggio di un fine settimana, di ritorno da una pineta sul mare agrigentino, mi chiesero: Ti piacciono le cozze? Le co … che? chiesi. Le cozze, con gli spaghetti, mi risposero.
Mi spiegarono pazientemente cosa fossero e capii che parlavano di midie, quella specie di “scoică”, dissi tra me e me, in rumeno. Dunque: le cozze sono le midii, mentre le vongole sono le scoici, ripetei, per fissare una, anzi due nuove parole nella mia nuova lingua.
Non le avevo mai assaggiate. Stasera vieni da noi, dissero. A cena, spaghetti alle cozze, aggiunsero. Detto, fatto. Così assaggiai – e che squisitezza! – per la prima volta a cena, a casa dei miei cari amici Angelo e Rosalia, gli spaghetti alle cozze. Ci furono altre cose che scoprii grazie a loro, il tempo che passammo insieme.
Da allora, anche se ci separa praticamente l’Italia intera continuiamo a coltivare una profonda amicizia. Loro, nel frattempo, hanno creato da zero il brand Solotudonna e sono diventati affermati imprenditori nel settore della bellezza. Io, dall’altra parte del Paese, ho ideato, sempre da zero, il blog che stai leggendo e un’azienda che lo gestisce. Nella dimensione di una vita ci siamo visti per poco tempo eppure siamo riusciti a costruire e mantenere un rapporto umano basato su stima e fiducia.
Là, nel loro Internet Café, in quella mia prima primavera siciliana (e italiana) cercavo online la nuova casa. Dopo tre mesi in cui scandagliai l’Italia intera di inizio terzo millennio presente sul web, le sue università e le città che mi facevano sognare ad occhi aperti, la trovai.
Su Internet, dicevo, quasi per caso. Aveva tutto quello che occorreva: il clima simile a quello della mia città di nascita, un corso di laurea stimolante che – speravo – mi avrebbe fatto viaggiare tanto. Era nel cuore dell’Europa, era di media dimensione, sufficientemente lontana dal torrido Sud (le estati in Sicilia sono caldissime, le due che ho vissuto mi hanno messo a dura prova …) e vicina ai posti che popolavano la mia mente dai tempi dell’adolescenza: Londra, Parigi, Venezia, Vienna per citarne solo alcuni. Vicina a … Londra? Non proprio, ma comunque più vicina rispetto a Canicattì, dove abitavo prima.

Ricomincio tutto daccapo
Dal profondo sud ero pronto a sbarcare nell’estremo nord del Bel Paese: la mia nuova casa, mi convincevo sempre di più, era là, incastonata tra le maestose Dolomiti. La mia nuova casa diventò Trento.
Lì, nel capoluogo trentino, e con quel foglio in formato A4 in tasca – il mio permesso di soggiorno – avrei ripreso gli studi universitari. Avrei ricominciato tutto daccapo. Infatti, archiviai i due anni di Giurisprudenza fatti in Romania e mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento.
Era settembre 2003. Stavo per compiere due anni dal mio arrivo in Italia. La mia nuova vita iniziava con un corso di laurea che mi avrebbe impegnato per i successivi tre anni e permesso di rispolverare e approfondire le due lingue – inglese e francese – che stavo studiando da tempo.
L’immatricolazione al corso di laurea triennale di Mediazione linguistica per le imprese e il turismo, da poco attivato e molto richiesto sancì l’inizio di un periodo di profonda trasformazione e crescita. Personale e intellettuale. Proseguì, con meno convinzione, ma tant’è, con una laurea specialistica in Scienze linguistiche per le imprese, la comunicazione internazionale e il turismo. Prima laurea, di tre anni in tre anni, la seconda di due anni, in quattro. A proposito di … convinzione 😉
Anni indimenticabili
Vissi comunque anni intensissimi, soprattutto i primi tre, della laurea triennale, popolati da belle persone dai quattro angoli del pianeta, da straordinari viaggi e amicizie, da emozioni indimenticabili. Tre anni impegnativi in cui ho fatto ciò che la stragrande maggioranza degli studenti fanno appena usciti dai banchi delle scuole medie superiori: studiano e scoprono, lavorano e si divertono. Esplorano, ci provano. Cadono e si rialzano.
Ero a cavallo dei miei trent’anni, inserito in un ambiente universitario stimolante, in una città vivace, anche se un po’ scettica e diffidente. Comunque, una città tra le migliori per qualità della vita, dell’ambiente e dell’educazione universitaria.
Attorno a me un popolo di ventenni. Per un po’ mi sentii fuori posto: ero appena arrivato in città, con un borsone e pochi soldi e non conoscevo nessuno. Ero affascinato dalla nuova città, dai posti che iniziavo a frequentare e, a dire il vero, anche un po’ spaesato.
Rimediai in breve tempo: mi trovai un lavoro come lavapiatti in un ristorante – guarda caso – i cui titolari provenivano da … Caltanissetta. Iniziai a frequentare la biblioteca universitaria e conoscere nuove persone: studenti, come me, entusiasti e un po’ spaesati.
Con l’anima di uno studente ventenne nel corpo di un trentenne, mi ritrovai ad affrontare: dubbi e paure, un’insaziabile curiosità e volontà di mettermi alla prova, lavori precari e impegni di studio, nuove scoperte della cultura di accoglienza, nuovi amici e nuovi posti in una parte dell’Italia, in una parte del mondo in cui non avrei mai pensato di vivere, studiare e lavorare.
Voglio indietro le parole
In questo modo, impegnativo e divertente allo stesso tempo, volevo dimostrare e dimostrarmi di poter far parte a pieno titolo del nuovo gruppo. Volevo diventare italiano e appartenere all’Italia. Volevo riavere indietro le parole.
Quelle sì, mi mancavano, e che sconforto! Volevo riconquistarle, in una nuova lingua che a poco a poco – ma ancora non me ne rendevo conto – sarebbe diventata la mia seconda madrelingua. Un ardente desiderio di appartenenza alla nuova cultura di accoglienza guidava tutto ciò che facevo durante e dopo gli anni universitari.
Volevo comprendere in profondità la nuova cultura di accoglienza e il luogo dove avevo scelto di vivere rispondeva perfettamente a questo mio intenso desiderio.
Durante il mio percorso universitario, così come anche prima e dopo, mi sono totalmente immerso nella cultura e nella civiltà italiana. Studiavo la lingua da autodidatta: leggevo qualsiasi cosa mi capitava tra le mani, giornali, riviste e libri, opuscoli e volantini pubblicitari, guardavo i film e la TV e ascoltavo la radio in italiano.
Infatti, a differenza delle altre due lingue straniere in cui scrivo e parlo correntemente (inglese e francese), non ho mai seguito un corso di lingua italiana e non ho mai conseguito una certificazione che attesti formalmente il mio livello linguistico in italiano.
Nei primi anni del nuovo millennio, l’Internet era meno diffuso e gli smartphone non esistevano. Da Trento, per chiamare in Sicilia o in Romania, usavo ancora le schede per i telefoni delle cabine telefoniche, scomparse poi nel giro di pochi anni. Per accedere all’Internet, mi recavo in quella che mi sembrava all’epoca uno spazio futuristico: l’aula Internet della Facoltà di Lettere. Uno dei primi e concreti privilegi di essere tornato sui banchi di scuola. Anzi, sui banchi di una delle più prestigiose università italiane.
Come ricostruire l’autostima andata in frantumi
Le mie conquiste linguistiche proseguivano e alimentavano come poche altre cose la mia autostima. Approfittavo di qualsiasi occasione per parlare nella mia nuova lingua, chiedevo di essere corretto quando usavo un termine in modo errato, frequentavo quasi esclusivamente persone che parlavano italiano.
Anche con alcuni dei miei connazionali incontrati dentro e fuori le aule universitarie preferivo parlare in italiano. Coglievo, insomma, tutte le opportunità che la mia nuova vita, la mia nuova quotidianità universitaria mi offriva per rafforzare l’espressione in una lingua che – seppur bella e soavemente melodiosa per l’inestimabile cultura e civiltà che veicola – non avrei mai pensato, né immaginato, fino a pochi anni addietro, di dover imparare.
Poi, all’improvviso, nell’autunno del 2005, all’inizio del terzo anno di università, è successo un fatto straordinario. Tutto a un tratto, dopo quattro anni di immersione totale nella lingua e nella cultura italiana, ho cominciato a pensare direttamente nella nuova lingua.
Cosa facevo prima? Ascoltavo in italiano, traducevo mentalmente ciò che sentivo in rumeno, poi pensavo in rumeno, traducevo in italiano, e, infine, rispondevo sempre in italiano. Il tutto in pochi secondi.
Penso, dunque sono … in un’altra lingua
Cogito, ergo sum! Penso, dunque sono, parola di Cartesio, ma in un’altra lingua.
All’improvviso, il mio cervello aveva smesso di tradurre i messaggi che mi arrivavano in italiano e iniziato a costruire pensieri direttamente nella lingua della mia nuova cultura di accoglienza.
Fu una notevole conquista. Come se di punto in bianco avessi cambiato un abito parecchi numeri più grande con uno su misura. Un sarto invisibile prese le nuove misure di quella che stava per diventare la mia seconda madrelingua e mi fece un abito linguistico su misura, tutto parole, pensieri, cultura e civiltà italiana.
Col passare degli anni riacquistai quella sicurezza linguistica – in gran parte responsabile di una sana autostima – propria di un parlante madrelingua che persi con il mio arrivo in Italia e che è poi andata, a mano a mano, a rafforzarsi fino a sommergere quasi completamente la mia madrelingua rumena.
Dopo 15 anni dal mio arrivo in Italia, l’equivalente di cinquemila giorni di immersione totale nella nuova cultura di accoglienza, realizzai di essere arrivato dritto a un punto di … non ritorno.
Il borderline culturale
I miei sforzi compiuti per raggiungere una piena integrazione avevano dato i loro frutti e ora ero italiano abbastanza e sempre meno … rumeno. Quindi, non del tutto italiano, non più rumeno. Dentro di me vivevano non sempre pacificamente due lingue, due culture, due civiltà.
Il mio Paese di nascita, la lingua in cui per la prima volta imparai a parlare, sentire e guardare, la cultura che modellò i primi pensieri, le prime emozioni, le prime parole erano adesso lontani, in una dimensione del mio passato sempre più nebbiosa.
Quando pensavo a me stesso rumeno era come se stessi pensando a una persona, altra, che avevo conosciuto anni prima e che non vedevo più da tempo. I legami con la mia terra, con le mie radici si erano indeboliti e stavano per scomparire. Io, rumeno, stavo per scomparire, pensavo, con non dissimulata nostalgia.
Non era stato un obiettivo a cui aspiravo, ma era ciò che accadeva. Una conseguenza del mio profondo, incondizionato desiderio di integrazione nella nuova cultura di accoglienza.
Dopo 15 anni di permanenza nella patria del Rinascimento mi resi conto che avevo fatto ciò che andava fatto per diventare cittadino di un nuovo Paese ed espressione di una nuova cultura, incluso il giuramento che sanciva l’acquisizione della seconda cittadinanza: italiana. Ulteriori tentativi di integrazione nella cultura di accoglienza o (re)integrazione nella cultura di partenza avrebbero rischiato di produrre un effetto controproducente: esagerata malinconia, frustrazione e infelicità.
Nella consapevolezza emersa da questo stretto abbraccio di due culture durato migliaia di giorni, capii di essere arrivato a un punto di svolta della mia vita, un punto che io chiamo borderline culturale.
Si tratta di un punto di non ritorno, un punto di fusione completa tra le due culture, di origine – la cultura rumena – e di accoglienza – la cultura italiana. Questa fusione diventò nuovo modo di parlare (accento indefinibile), sentire, vivere e interpretare il Mondo (si gioisce, si ama in italiano, ci si arrabbia in rumeno), nuovo modo di definire i rapporti sociali e culturali (ci si tiene lontani dalle persone che ti rinfacciano di essere diventato troppo poco rumeno oppure ti guardano con una certa diffidenza per non essere esattamente uno di loro).
Una nuova chiave di lettura del mondo circostante – cose, persone, relazioni, tempo ed emozioni. Nuove lenti, su misura, che a poco a poco hanno sostituito gli “occhiali” della cultura di origine.
Il borderline culturale è anche punto di osservazione privilegiato nel percepire, analizzare e restituire al Mondo la fusione delle due (o più) culture impregnate nel proprio Essere. Un punto di non ritorno in cui pensiero, parole e azioni rimangono, indissolubilmente legati da fili invisibili ad entrambe le culture a cui oramai appartieni.
Sei e ti senti a tutti gli effetti su una frontiera, consapevole della ricchezza linguistica, culturale e comportamentale che custodisci. E consapevole che nulla più ti possa portare al di qua o al di là della sottile linea di frontiera che separa le due culture: il borderline culturale.
Nuova lingua, nuova cultura, nuova consapevolezza
Dinanzi alla mia nuova consapevolezza ho smesso di voler diventare italiano. Ho smesso di volermi integrare. Da ora in poi, mi sono detto, le cose avrebbero seguito il loro corso senza che la mia volontà agisse da stimolo.
Non ho mai voluto smettere di essere rumeno e, sì, ho tanto voluto essere italiano, anche se – il paradosso della mia vita – mai avessi sognato di vivere in Italia. Il mio sogno segreto, dopo il mio primo soggiorno all’estero, in Turchia, a 18 anni appena compiuti, era stato di trasferirmi in Inghilterra.
Dicevo: non ho mai smesso di essere rumeno, ma stava per succedere proprio questo. Mentre diventare, volutamente, più italiano di quanto lo fossi diventato, non mi avrebbe portato altre soddisfazioni pari a quelle vissute nei primi anni dal mio arrivo in Italia.
Stavo prendendo piena consapevolezza della mia nuova vita. Una vita bilingue, in cui le pulsioni del mio sentire e del mio pensare sarebbero state bilingue. Un vita in cui avrebbero trovato spazio ed espressione emozioni ed aspirazioni bilingue e multiculturali.
A cadenza normale, però, senza nuovi sprint: avrei accolto il presente con nuovi occhi e con la stessa gioia di vivere. Avrei costruito il mio nuovo futuro in modo che la mia dimensione biculturale si fosse riflessa nelle mie azioni, nei miei pensieri, nelle mie parole.
Anche nel mio nome che avevo italianizzato con troppa leggerezza. Da quel momento in poi avrei rivendicato il mio vero nome, togliendo quella “o”, la vocale finale che ora pareva così estranea e che rendeva il mio nome, sì, italiano, ma allo stesso tempo, mi allontanava da me stesso, da ciò che rappresentavo.
Ho anche preso penna e carta digitale e ho ricominciato a scrivere: nella mia nuova madrelingua, in italiano.
Rispetto e diversità
Ti ho raccontato questa mia intensa avventura di vita e trasformazione culturale per illustrarti che tra tanti valori personali rivisti, rimescolati e necessariamente reinterpretati, anche il rispetto ha subito notevoli mutamenti e adattamenti nell’incontro con la nuova cultura di accoglienza.
Una cultura, del resto, per molti versi opposta alla mia originaria. Pensa, ad esempio, ai due sistemi socioeconomici che hanno caratterizzato l’Europa dell’Ovest e l’Europa dell’Est prima del 1989: l’Oriente europeo di cui Romania ne è parte e l’Occidente a cui appartiene Italia si sono contrapposti per quasi 50 anni, con conseguenze indelebili sulle più profonde strutture delle due società, sulla loro cultura e perfino sulla loro lingua.
Nel villaggio globale chiamato Mondo, oggigiorno ancora di più rispetto all’epoca del mio arrivo in Italia, nell’autunno del 2001, una parola in particolare fa rima con il concetto di rispetto.
Si tratta della parola diversità, come espressione di un sapere pragmatico: oggi, è molto più frequente di qualche tempo fa incontrare diversità umane e culturali di ogni dove. Questa è una consapevolezza, un’accettazione, un’accoglienza che si impara, si educa e si coltiva.
Come ho fatto io. Ho imparato ad accogliere. E a mettere gli altri nella condizione di accogliermi. Ho imparato ad apprezzare con le giuste misure della nuova cultura i nuovi territori fisici e simbolici che percorrevo. A convivere con ciò e coloro che appartengono alla cultura italiana che mi accolse – non sempre a braccia aperte, ma questa è un’altra storia – quell’inizio di autunno del 2001, l’inizio, di fatto, di una nuova e inaspettatamente intensa stagione della mia esistenza.

Vita bilingue e multiculturale
Una nuova vita segnata da un marcato bilinguismo e profondo multiculturalismo. Perché oltre alle due culture di cui ti ho parlato in questo articolo, ho anche continuato a curiosare, esplorare e studiare le altre due lingue e civiltà che mi hanno accompagnato dal primissimo inizio della carriera scolastica in Romania: la lingua e la cultura francese e la lingua e la cultura inglese.
Ecco, allora, che un valore di notevole spessore morale come il rispetto diventa un importante catalizzatore relazionale nei rapporti tra le diversità umane.
Per coltivare il rispetto nella cultura in cui ho scelto di rieducarmi alla crescita, ho appreso nuove usanze gestuali, comportamentali e convenzionali. Senza per questo perdere gli usi e i costumi della mia cultura di origine. Alcuni esempi: in Italia si bacia e si gesticola di più, in Romania si stringe la mano di più e si gesticola meno; una delle più apprezzate chicche italiane, una vera religione nel Bel Paese, lo spritz, è una cosa ben diversa in Romania sia nella composizione sia nella sua valenza sociorelazionale.
Ancora: il primo, a tavola, è pasta in Italia e minestra in Romania, un’altra chicca tipica italiana, la grappa, si consuma prima del pasto in Romania (e si chiama rachiu), e dopo il pasto, in Italia. Infine, ma gli esempi potrebbero continuare, in chiesa si sta in piedi in Romania, e seduti, in Italia.
Il punto è questo: l’esperienza di immigrazione modifica fortemente il rapporto che si ha con sé stesso e con il mondo circostante, con la propria cultura di partenza e con la nuova cultura di accoglienza. Con la madrelingua e con le altre lingue.
Implicitamente, anche con questo valore spesso parecchio martoriato: il rispetto. Un valore fondamentale per la buona convivenza sociale nel mondo iperglobalizzato, tecnologico e interconnesso del terzo millennio.
Un valore fondamentale per coltivare la più alta aspirazione dell’essere umano: la democrazia.
Domande, curiosità?
Scrivimi a lucian@rhetofan.com.
Leggi anche:
Sull’immigrazione e intelligenza rispettosa (I)
Sull’immigrazione e intelligenza rispettosa (III)
PS: Questo articolo è apparso, singolarmente, per la prima volta il 5 dicembre 2016. A febbraio 2020, l’ho aggiornato e riproposto con lo stesso titolo ma in tre episodi. L’ho integrato e attualizzato a maggio 2021.