Un uomo trovò un uovo d’aquila e lo mise nel nido di una chioccia.

L’uovo si schiuse contemporaneamente a quelle della covata, e l’aquilotto crebbe insieme ai pulcini.

Per tutta la vita l’aquila fece quel che facevano i polli del cortile, pensando di essere uno di loro.

Frugava il terreno in cerca di vermi e insetti, chiocciava e schiamazzava, scuoteva le ali alzandosi da terra di qualche decimetro. Trascorsero gli anni, e l’aquila divenne molto vecchia. Un giorno vide sopra di sé, nel cielo sgombro di nubi, uno splendido uccello che planava, maestoso ed elegante, in mezzo alle forti correnti d’aria, muovendo appena le robuste ali dorate.

La vecchia aquila alzò lo sguardo, stupita. “Chi è quello?” chiese.

“È l’aquila, il re degli uccelli” rispose il suo vicino. “Appartiene al cielo. Noi invece apparteniamo alla terra, perché siamo polli.”

E così l’aquila visse e morì come un pollo, perché pensava di essere tale.

Alcuni anni fa, proprio a settembre, partii per Parigi per uno stage di quattro mesi negli uffici di uno dei maggiori tour operator francesi, tutt’oggi operativi. Fu l’occasione di incontrare splendide persone, di lavorare in un posto straordinario e di esplorare in prima persona usi e costumi di chi in una grande capitale europea ci viveva e lavorava.

 

All’epoca, ero poco più che trentenne ed ero circondato da persone della mia stessa età, più o meno, che facevano ciò che fanno i giovani alla soglia dell’unico “enta” che precede i tanti “anta”: vivono intensamente, sognano, amano, si interrogano, si inquietano e, a volte, se ne fregano. A quell’età, la vita è ancora popolata dai sogni, da tanti audaci “farò” e “cambierò”. Tutto è ancora possibile, e meno male.

 

Mi conquistò subito la fame di vita di quella gioventù matura in stridente contrasto con la pacatezza tipica della composta città racchiusa tra le maestose Dolomiti italiane da cui venivo. L’intensa passione delle tante persone che avevo incontrato nel mio soggiorno parigino, la loro spensieratezza, la loro dolce leggerezza del vivere giorno per giorno, un giorno alla volta, fu per me una scossa emotiva che mi fece capire per bene che stavo “respirando” intensamente una delle più affascinanti città del mondo. Vivevano un qui ed ora che non avevo mai visto e sentito così da vicino.

 

“Parigi è una droga” mi dissero, “una volta assunta, ne diventi dipendente”. È vero. Ebbi l’occasione di viverlo in prima persona. Rifiutai però di assumere la giusta dose e me ne pentii.

 

Durante la settimana si lavorava sodo. Io ci mettevo due ore per andare e tornare dal lavoro, cambiando tram e due metrò. Tipico delle grandi città, che rendeva anche questa banale attività di spostamento un’esperienza incredibilmente intensa. Nella metropolitana francese tutti leggevano, o quasi. Era una biblioteca su rotaia, ed io ho fatto anche questo: mi sono letto alcuni libri nella splendida metropolitana parigina.

 

Che mondo diverso! Non c’erano le reti sociali come le conosciamo oggi. Non erano così pervasive della nostra quotidianità e alcune nemmeno esistevano. Non c’era Audible, né Kindle, non c’era Instagram, né WhatsApp. Non eravamo ancora così dipendenti dalla nostra Rete di tutti i giorni. Pensa: ci mandavamo ancora gli sms quando volevamo dirci qualcosa. E ci chiamavamo quando volevamo parlarci.

 

Tutto bene al lavoro durante la settimana. Nel weekend però “la musica” cambiava: mi sono diviso la maggior parte dei fine settimana nel mio autunno parigino tra feste, whisky, sigarette e tutto il resto a un ritmo frenetico, sfiancante. Qualche anno prima avevo scoperto Vasco Rossi e adesso cominciai a farmi un’idea tutta mia su ciò che vuol dire “Vado al massimo”. Quei mesi sono rimasti scolpiti nell’anima e nella mente come poche altre esperienze vissute nella mia vita.

 

Alcune ombre, tuttavia, si stagliavano su questa intensa esperienza umana e professionale. Interiormente ero molto tormentato, non capivo bene se per la stanchezza che stavo accumulando o per le numerose domande che mi ponevo. Mi sentivo spesso un pesce fuori acqua. Come se quel traguardo così tanto desiderato e sudato non me lo fossi meritato.

 

Non mi ci volle tanto per capirlo. La paura mi facevo andare “col freno tirato”. Mi impediva di scrivere serenamente una delle più belle pagine della mia storia personale. Non riuscivo a vivere qui ed ora, o, per meglio dire, là e allora. Mi chiedevo, invece, ingenuamente, cosa di sbagliato ci fosse con e dentro di me. I miei tormenti sparivano al secondo bicchiere di whisky, quando cominciavo a vedere il tutto nella “giusta” prospettiva. Tutto, tranne me.

 

Non facevamo nulla di male, nessuno dell’entourage che frequentavo – multiculturale e multilinguistico – ha mai avuto alcun problema al di fuori del mal di testa mattutino e degli occhi gonfi come le cipolle, segno delle tante notti bianche a dibattere i problemi esistenziali, sempre gli stessi: amore, felicità, amicizia, successo, democrazia i loro contrari solitudine, infelicità, fallimento e totalitarismo. Eppure, non riuscivo a godermi pienamente quel periodo di grande fermento relazionale, linguistico e culturale.

 

Sotto la sottile superficie di quella trepidante realtà serpeggiava la paura, irrazionale e ingiustificata. Ascoltavamo musica, dibattevamo i grandi problemi della vita in tante lingue diverse, esploravamo usi e costumi dei quattro angoli del pianeta.

 

Con il passare degli anni mi resi conto di una verità che mi sconcertò, rammaricò e infine ripacificò con me stesso: mi ero presentato all’appuntamento con un’unica opportunità della vita – il mio splendido soggiorno parigino – impreparato e impaurito.

 

Poteva andare diversamente? Probabilmente, no. Quella paura era talmente parte di me da essersi fusa con il mio essere, fare e pensare. La paura è insidiosa, subdola, perfida. Un mostro con tante teste che annebbia la mente e addenta ferocemente i territori più profondi dell’anima, lasciandoti camminare zoppicando sui sentieri della vita. Sei allo sbando e sfuggirne è davvero un’impresa. La paura prosciuga affamata le tue energie vitali. Confonde e condiziona le altre emozioni. Appanna il pensiero. Visti con gli orrendi occhiali della paura, il mondo, la vita, le persone appaiono distorte, confuse, sfuggenti. Il futuro, appena presente, diventa drammaticamente distopico.

 

La paura può tagliarti irrimediabilmente le ali. Lasciandoti a terra come un’aquila. Come quell’aquila che si credeva, a torto, un pollo.

 

A presto,

 

Lucian

 

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