Aggiornato il 23 luglio 2020

Questo articolo è stato revisionato e aggiornato il 23 luglio 2020.

La vera scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel vederli con nuovi occhi.

Marcel Proust

Una cinquantina di anni fa l’antropologo statunitense Edward T. Hall raccolse in un libro che intitolò La dimensione nascosta le sue riflessioni sul significato che noi, umani, diamo allo spazio percepito.

 

Per indicare lo studio della cultura dello spazio umano, Hall coniò un termine che ebbe molta fortuna e lo rese famoso: prossemica.

 

Lo spazio in cui ci muoviamo, il nostro territorio fisico e simbolico è un potente

strumento comunicativo

  • affettivo perché media il rapporto con le persone
  • psicologico perché rappresenta un diritto inalienabile all’intimità nella vita personale
  • estetico perché parliamo di noi anche attraverso lo stile d’abbigliamento che adottiamo, i colori e gli accessori che indossiamo
  • gerarchico perché esprime la posizione sociale o il titolo che ricopriamo
  • olfattivo perché iniziamo a sognare e fantasticare quando siamo avvolti da una fragranza tagliarespiro

Della gestione territoriale fisica e simbolica può dipendere il risultato di uno scambio discorsivo. Funziona così: tutti noi apprendiamo fin da piccoli le regole culturali della gestione territoriale, ciò che è permesso e ciò che non lo è in funzione della distanza rispetto al nostro interlocutore. Poi, crescendo, su queste regole imbastiamo la nostra vita proteggendo e rispettando i confini territoriali e simbolici, nostri e degli altri. Questi confini mutano in continuazione a seconda delle relazioni che instauriamo nella nostra quotidianità sociale, della loro intensità e della loro durata.

 

I messaggi territoriali che inviamo e che percepiamo hanno un significato diverso a seconda della cultura in cui vengono letti. Per dire, un viaggio da Nord a Sud come quello che feci io alcuni anni fa in treno, da Trento a Canicattì, ti fa capire che il rapporto con il territorio fisico e simbolico è diverso al nord, al centro e nel sud del Bel Paese, tra uomini e donne, tra uomini e donne di diverse età.

 

Della questione se ne occupa Beppe Severgnini nel suo libro dal titolo suggestivo La testa degli italiani. Aperto il libro, inizia il viaggio: un gironzolare di una decina di giorni per vie, viuzze e vialetti che portano, appunto, alla testa degli italiani. Passando per trenta luoghi. D’accordo, un po’ più lungo del mio viaggio che all’epoca era durato una trentina di ore, ritardi compresi. Ma diamo la parola a Beppe, che Italia e italiani, non c’è dubbio, li conosce bene.

 

Dice, a scanso di equivoci:

La vostra Italy non è la nostra Italia. Italy è una droga leggera, spacciata in forme prevedibili: colline al tramonto, olivi e limoni, vino bianco e ragazzi dai capelli neri. L’Italia, invece, è un labirinto. Affascinante, ma complicato. Si rischia di entrare e girare a vuoto per anni. Divertendosi un mondo, sia chiaro.

Poi, scopre le carte e rivela al lettore ciò che realmente lo tormenta:

Molti stranieri, nel tentativo di trovare l’uscita, ricorrono ai giudizi dei viaggiatori del passato – da Goethe a Stendhal, da Byron a Twain – che su di noi avevano sempre un’opinione, e non vedevano l’ora di correre a casa a scriverla. Questi autori vengono citati ancora oggi, come se non fosse cambiato niente. Non è vero: in Italia qualcosa è cambiato. Il problema è capire che cosa.

Ognuno è libero di capire ciò che più si addice alla propria sensibilità, noi lasciamolo finire.

 

Vai Beppe:

L’Italia però non è un inferno: troppo gentile. Non è neppure un paradiso: troppo indisciplinata. Diciamo che è un purgatorio insolito, pieno di orgogliose anime in pena, ognuna delle quali pensa d’avere un rapporto privilegiato col padrone di casa. Un posto capace di mandarci in bestia e in estasi nel raggio di cento metri e nel giro di dieci minuti. Un laboratorio unico al mondo, capace di produrre Botticelli e Berlusconi. Un luogo dal quale diciamo di voler scappare, se ci viviamo; ma dove tutti vogliamo tornare, quando siamo scappati. Un paese così, come potete capire, non è facile da spiegare. Soprattutto se arrivate con un extra-bagaglio di fantasie, e alla dogana lo lasciano passare.

Non solo Botticelli e Berlusconi che pure sono importanti, ciascuno a modo suo. Ma questo purgatorio insolito ha dato i lumi anche alla retorica, ma la cosa si perde nella notte dei tempi. Aristotele stesso ritenne che fosse Empedocle di Agrigento a inventare la retorica sotto il sole siculo del V secolo a.C. Questo oratore e poeta caduto, non si sa di preciso come, in disgrazia presso i suoi concittadini, lasciò poi il suo nome in eredità a una cittadina costiera del profondo sud italiano, non lontano da Agrigento. Molti, però, ricordano (Porto) Empedocle – questo è il nome della cittadina – più per la Scala dei Turchi, meraviglioso tesoro geofisico siciliano, che per il padre della retorica. Gli storici non si sono messi d’accordo per bene sulla questione, perciò non andiamo a scomodarli oltre.

 

Torniamo a noi.

 

Io sono d’accordo con Beppe. Prima, perché lui in Italia è nato e ci vive da una vita, perciò sull’argomento ha una certa esperienza, più ricca della mia. Poi, perché è vero, posso confermare le sue parole: quando io passai per la prima volta la dogana italiana – era settembre del 2001 – i funzionari fecero finta di non vedere e mi lasciarono passare. Avevo dietro un bagaglio di fantasie XXXL. Poi l’ho dovuto ridimensionare, ma questa è un’altra storia.

 

Nella foto: la Scala dei Turchi a Realmonte (AG) – dall’archivio personale